Radici Cristiane e altre favole – PODCAST n.8

Quando si dice che le radici dell’Europa e dell’Italia sono Cristiane, bisognerebbe riflettere su diverse cose.
La prima è che la Cristianità stessa non ha a che fare con l’Europa: geograficamente parlando, il Cristianesimo racconta una storia araba che si sposta dall’africano Egitto fino al Medio Oriente. Il personaggio principale è un Palestinese, figlio del “Dio dei figli d’Israele”, il “Dio delle 12 tribù Ebraiche”. L’appartenenza univoca ed esclusiva di Dio agli Ebrei (e viceversa) è ribadita molte volte all’interno della Bibbia e non lascia spazio ad equivoci.

A parte questo, per “radici cristiane” qualcuno può far riferimento al carattere democratico e libertario della politica Europea e Italiana, facendo un parallelismo tra questo tipo di democrazie e i valori del cristianesimo, come se fosse stato proprio il cristianesimo ad ispirarle.
Peccato che la democrazia, come concetto politico e sociale, nasca nella pagana Grecia e sia stato completamente disatteso e dimenticato durante tutto il periodo in cui la cristianità faceva la parte del leone in Europa, sostenendo le monarchie ed essendo essa stessa una forma di monarchia assoluta, con struttura piramidale, al cui vertice c’è una figura autoritaria che non si può contestare, ovvero il massimo dell’assolutismo, l’apice di qualsiasi totalitarismo.
Al contrario, la nascita delle democrazie in Europa è stata possibile grazie a una diminuzione del potere religioso e una riscoperta dei valori sociali e politici pre-cristiani.

Paradossalmente, uno dei motivi che spinse l’Europa a riscoprire la cultura greca (e quindi la democrazia) fu proprio la contaminazione araba e l’Islam, con i suoi studiosi ed intellettuali che permisero la comprensione di filosofi come Socrate, rimasti in gran parte incompresi agli Europei. Questo non solo diede una spinta eccezionale alla cultura e alla nascita delle prime università, ma pose anche le basi di quello che viene definito metodo scientifico. Un trend che poi andò scemando nelle culture arabe, purtroppo, che a loro volta caddero nell’oscurantismo religioso. Ma questa è un’altra storia.

Oltre a tutto ciò, siamo soliti associare erroneamente alcune comuni tradizioni Italiane o Europee al cristianesimo e quindi far sì che il cristianesimo stesso sia considerato parte della nostra cultura e tradizione. Spesso però non è così. Per fare solo qualche mero esempio:

– L’albero di Natale: è una tradizione pagana precristiana. In Europa i druidi celti erano soliti usare l’abete per simboleggiare la vita (albero sempreverde) che resiste all’inverno (la morte) e i riti prevedevano l’incendio di una di queste piante proprio il 25 dicembre.

– Il Natale stesso non è una festa cristiana: questa data è sempre stata festeggiata da moltissime popolazioni pagane di tutto l’emisfero nord perché coincide con un momento astronomico importante legato al sole.

– Anche la pasqua è una rivisitazione di una tradizione pagana delle popolazioni nomadi Ebraiche. Nulla a che fare con quello che tradizionalmente si crede di festeggiare.

– Lo stesso volto di Cristo che siamo abituati a vedere nelle iconografie più comuni è un’interpretazione prettamente medievale e assolutamente arbitraria.
Un uomo nato in Palestina non poteva che avere tratti arabeggianti, dagli occhi scuri, carnagione olivastra e con classici capelli neri, ricci e corti (all’epoca era usanza per gli uomini ebrei tenerli corti poiché ritenevano indecoroso averli lunghi). Di certo, quindi, Cristo non somiglierebbe al nordico capellone (appunto molto più somigliante ad un cavaliere medievale nord-europeo) a cui siamo abituati. Questa forzatura iconografica fotografa molto bene le necessità politiche e psicologiche di adattare le caratteristiche di una storia alle esigenze di un popolo europeo per una migliore assimilazione altrimenti probabilmente impossibile.
In effetti, spesso, ciò che è veramente un retaggio del cristianesimo, non riguarda affatto “noi europei” e molte delle tradizioni “cristiane” facenti parte del nostro passato, non sono affatto cristiane.

A parte questo, quello che probabilmente sta alla base di questa mentalità è la concezione distorta dei concetti di “tradizione” e “cultura”. Chi sostiene la difesa estrema di questi due valori da qualsiasi contaminazione, perché ne fanno un baluardo della loro stessa identità, commette due gravi errori di fondo: il primo è concettuale, il secondo è psicologico.

L’errore concettuale sta proprio nel considerare quelle due caratteristiche come un qualcosa di immutabile, un monumento eterno che rappresenta un popolo, adesso e per sempre, frutto di una separazione e allontanamento da tutti gli altri popoli che sono “diversi”.
La verità è che è esattamente il contrario: la tradizione e la cultura di un popolo non hanno la caratteristiche dell’eternità né della immutabilità, tantomeno della “purezza” rispetto alle contaminazioni. Al contrario, tradizioni e cultura sono la fotografia di un popolo che, come una normale fotografia scattata nel corso del tempo ad una persona qualunque, muta nel tempo: così come una persona cresce, conosce persone diverse, fa esperienze diverse, muta le proprie necessità ecc. così un popolo vede mutare i propri aspetti attraverso contaminazioni con altri popoli e con mentalità e concezioni della vita differenti che si sviluppano naturalmente col tempo.

Tutte le tradizioni di oggi sono frutto di un cambiamento e un abbandono di altre tradizioni più vecchie. Per questo ha senso ricordarle, ma non necessariamente perpetuarle.
Attribuire alla cultura e alla tradizione, quindi, le caratteristiche dell’immutabilità e della purezza, significa non aver capito cosa esse siano e nemmeno quale sia il loro valore, derivante appunto dal mostrare come un popolo possa evolvere socialmente grazie ai cambiamenti interni ed esterni.

L’errore psicologico, invece, si insinua subdolamente ed è conseguenza del primo. Tutto nasce dall’inibizione della capacità di ognuno di noi di riconoscere il proprio valore individuale, a prescindere dall’ambiente e dalla comunità in cui vive. Questo ci sprona a doverci per forza riconoscere nella comunità stessa in maniera ossessiva, al punto tale che, se questa comunità cambia (non importa se in meglio o in peggio), rifiutiamo questo cambiamento e facciamo di tutto perché le cose restino come sono poiché, nell’inganno psicologico, avvertiamo che sia messo in pericolo quello che individualmente siamo.

Questo avviene anche perché non è immediatamente evidente che le caratteristiche di una comunità derivano, di nuovo, dalla somma delle diversità degli individui. Persino chi vive una vita completamente opposta alle caratteristiche della comunità in cui vive, contribuisce a sostenerne l’identità complessiva. Ma è il continuo vederci separati da noi stessi, il sentirci persi e deboli, che ci fa aggrappare a una sorta di transfert psicologico verso la “comunità”. Più si è deboli, meno ci si conosce, più si ha bisogno di certezze.  

Così come ognuno di noi ha lo stupido e basso bisogno di essere descritto, catalogato e idealizzato dal prossimo per capire chi è, rifiutando la scomodità di considerare le infinite sfaccettature della propria personalità, così abbiamo bisogno di vedere la società in un unico modo, con dei paletti, dei limiti e delle caratteristiche ben precise che servono poi, a loro volta, per identificare noi stessi e definirci.
E’ così che l’inganno psicologico si compie: il singolo individuo è stato così impoverito, indebolito e privato della sua identità individuale (basata su cose vere come scelte personali, sbagli, la propria morale, esperienza ecc.) che è indotto a confonderla con questa appartenenza arbitraria verso una nazione o una religione, appartenenza semplicemente ereditata da scelte di altri, più che altro frutto di politiche di dominio e controllo, comunque un’appartenenza con cui non ha avuto nulla a che fare, non è una sua scelta e non ne ha alcun merito.

Per avere un esempio palese della artificiosità di queste “appartenenze sociali”, si pensi a quella che nasce tra persone che tifano la stessa squadra allo stadio, che si abbracciano con entusiasmo al gol, arrivando a volte persino a rischiare la vita insieme in scontri fisici con tifosi avversari, quando magari, al di fuori di questo contesto, arriverebbero ad odiarsi per le differenze nello stile di vita e nei principi.
Fatto sta che non esiste alcuna identità statica non soggetta ad interpretazioni o mutamenti, sia per quanto riguarda l’individuo, sia per quanto concerne la società. E’ solo una mera finzione psicologica di cui si ha bisogno.

Concludendo, le cosiddette “radici cristiane” da cui siamo partiti, rappresentano in realtà un cardine fittizio, labile, opinabile e arbitrario, un contenitore vuoto. Esattamente come il tifo calcistico poco sopra descritto, esattamente come molti altri della stessa natura, usati nel corso dei secoli a scopi politici e di controllo sociale, come gli inneggiamenti alla razza o alla patria, che cercano di costruire muri saldi attorno a concetti che, invece, per loro natura e per verità storica sono, per usare un eufemismo, mutevoli. Stiamo parlando di elementi tattici, politici. Elementi che saranno sempre utilizzati per la comodità e gli scopi dei potenti, per ottenere un comportamento pianificato della popolazione, almeno finché non avverrà un’emancipazione identitaria del singolo individuo e di conseguenza della società, che diverrà “abbastanza grande” da potersi guardare allo specchio senza paure.

Il potere ha sempre cercato di disgregare la nostra splendida e incontestabile individualità, perché l’individuo è imprevedibile, mentre le masse sono perfettamente controllabili. Hanno sempre cercato di omologarci e racchiuderci in recinti, rimpolpando ora questo ora quello schieramento a seconda del bisogno politico.
Il vero senso di comunità che dovremmo coltivare è quello verso tutto quello che abbiamo intorno: luoghi, persone, animali compresi. Ognuno celebrando la propria diversità, difendendo quella altrui, e assieme ammirando e godendo del melting pot risultante. Consci del presente, ricordando il passato e non temendo i cambiamenti futuri.