Combattere il mostro senza diventare un mostro



Che Israele sia uno stato criminale e genocida l’ho detto più volte e ho portato anche numerosi fatti a sostegno di questo sui miei canali.
Posto questo, però, tra coloro che sono arrivati alle mie stesse conclusioni, ho trovato posizioni dalle quali dissento fortemente e sento il dovere di argomentare in proposito.

Per prima cosa l’esistenza di Israele.

Per me Israele non avrebbe dovuto esistere nel senso che, politicamente e geograficamente, quello stato è nato come un furto verso le persone che abitavano già lì, furto che non solo è continuato, ma si è trasformato in occupazione criminale, apartheid e genocidio.
Credo che i politici e i cittadini direttamente responsabili di questa situazione dovrebbero ovviamente risponderne senza sconti.

Però questo non mi fa ritenere che OGGI Israele non dovrebbe esistere. Questo perché, oltre a coloro che sono responsabili della situazione, esistono anche Israeliani, uomini, donne, persone, esseri umani, che sono nati lì, senza averlo nemmeno scelto, e che considerano quella come la loro casa. Da 70 anni. Non è pensabile risolvere il dramma della Palestina facendo “sparire” Israele. E poi, in che modo? Deportando tutte quelle persone? o chissà cos’altro? Non la trovo una soluzione valida praticamente né soprattutto eticamente, anzi sarebbe un’atrocità delirante.

La situazione non può che essere risolta rimuovendo coloro che direttamente hanno contribuito e contribuiscono alla tragedia Palestinese, rimuovendo la propaganda incessante che ha da decenni messo i popoli uno contro l’altro e attivando un percorso di pace e coesistenza degli stessi.
Difficile? Utopico? Forse. Ma non impossibile. Per me rimane in ogni caso l’unica strada, quindi è inutile girarci intorno, si può solo prenderne atto e fare tutto quello che si può, a prescindere da quanto sia difficile o utopico.

Un secondo punto riguarda il 7 ottobre.

Mi trovo in fortissimo disaccordo col ritenere l’azione di Hamas del 7 ottobre un atto di resistenza da celebrare.
Per me parlare di resistenza di fronte ad atti violenti contro civili significa solo assomigliare tragicamente al nemico che si pensa di combattere.

Sia chiaro, capisco che la disperazione e la necessità di non soccombere possano portare a commettere azioni violente, anche sconsideratamente violente. Lo capisco, riesco a contestualizzarlo nel clima di orrore che l’ha generato (e politicamente va sempre ricordato) e metto in conto che molti, me compreso, nelle stesse condizioni potrebbero essere portati a commettere azioni simili.

Questo però non mi porta automaticamente a giustificare quelle azioni e soprattutto non le supporto a posteriori come azioni strategiche, valide, attuabili, corrette. E non le chiamo resistenza.
La resistenza può ovviamente essere anche violenta ma deve essere portata contro il nemico e deve servire a sopravvivere, altrimenti non è resistenza.
Resistenza è uccidere un soldato che sta per sparare alla tua famiglia. Non è resistenza pianificare il massacro della famiglia di quel soldato.
Nel momento in cui io chiamassi resistenza azioni simili e le sostenessi, non sarei più in grado di dire cosa distingue me dai criminali che contesto.

Se rapire, uccidere o torturare dei civili Israeliani è resistenza, allora non suona più tanto assurdo se qualcuno per “autodifesa dai terroristi” bombarda civili Palestinesi.
Perché avere una moralità significa anche avere dei limiti rispetto a quello che si è disposti a fare. Se non ci sono limiti, se non ci si pone più nemmeno la domanda, se tutto è negoziabile, allora non c’è più alcuna morale e conta solo la vittoria, il dominio sull’avversario, a qualunque costo. Questa è la stessa logica dell’oppressore.

Vedere oggi qualcuno che contesta (giustamente) lo stato criminale e genocida di Israele supportando però o anche solo giustificando le atrocità commesse da Hamas è semplicemente rivoltante e mi fa temere che molti, oggi dalla parte giusta della storia, lo siano solo per puro caso e, a parti inverse, non si comporterebbero molto diversamente da chi contestano.

Oltre a questa questione morale, ne esiste anche una pratica e fattuale: questo tipo di azioni violente fanno il gioco del nemico.
Infatti, esistono numerose prove che indicano come Israele abbia finanziato Hamas e di come abbia lasciato che l’attacco del 7 ottobre accadesse (se non l’ha addirittura organizzato).

Del resto, non è una novità che i poteri costituiti spingano i loro contestatori a commettere azioni violente con un duplice fine: avere la scusa per attuare la repressione e fare in modo che le realtà antagoniste non si organizzino diversamente e non si focalizzino su azioni molto più strategiche, proficue e dannose per il potere stesso.

Hamas è una piaga per i Palestinesi tanto quanto Netanyahu.
Spesso c’è proprio un rifiuto ad accettare questa evidente dinamica e anzi si ha un bisogno dogmatico di dipingere Hamas come un’organizzazione positiva, ribelle e rivoluzionaria mentre si tratta solo di un altro strumento dell’oppressione.

Ciò rivela come ci sia il concreto e diffuso rischio che movimenti antagonisti, di controcultura, di contestazione vengano mossi da una lettura della situazione ingenua e utile al potere, perché sono portati a replicare posizioni e forma mentis che sono frutto di cliché creati proprio per incasellare il dissenso, renderlo prevedibile, domabile, reprimibile oppure inefficace se non addirittura proficuo per il potere stesso.

Il mito adolescenziale e machista del rivoluzionario violento ha fatto il suo tempo credo. È qualcosa che dovremmo lasciarci alle spalle perché eticamente riprovevole, strategicamente dannoso e storicamente inefficace.