La schiavitù moderna e l’impatto della moda sulla vita dei lavoratori indiani nell’industria tessile

Se vogliamo avere un esempio di come civiltà, scienza e capitalismo agiscano come gigantesche mani che spremono le vite delle persone, possiamo dare un’occhiata alla moda.
La necessità fasulla e instillata dal consumismo di avere abiti diversi ogni anno a basso costo, in modo che questa possa essere un’attività di massa, non di nicchia, ha causato in diverse parti del mondo la creazione di veri incubi sociali e ambientali.

In particolare, in India, il maggior paese produttore di cotone (da poco ha sorpassato la Cina, ma la situazione è simile in molti luoghi tra i quali spicca anche il Bangladesh), si sono create enormi fabbriche dove le persone lavorano anche 24 ore al giorno, senza sosta, a contatto con materiali pericolosi senza alcuna protezione. Questi mostri industriali poi scaricano i residui dei processi di conceria direttamente nei fiumi, causando danni ambientali inestimabili.
Queste sono le nuove periferie della civiltà: nell’epoca della massima delocalizzazione e frammentazione, le fabbriche del primo mondo, un tempo relegate ai margini delle città, spariscono magicamente per riapparire a migliaia di chilometri di distanza. Interi paesi divengono così la periferia di altri paesi. Lo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse, l’inquinamento, le piaghe sociali ed economiche, tutto viene delocalizzato dove è sempre più difficile vedere.

Gli sterminati campi di cotone indiani sono mutati nel tempo: le vecchie coltivazioni non potevano reggere il ritmo della richiesta drogata dell’occidente, così colossi dell’industria agroalimentare, soprattutto americani, dagli anni ’90 hanno offerto ai coltivatori indiani dei nuovi semi OGM che erano più resistenti e rendevano di più rispetto a quelli che venivano comunemente utilizzati. Dopo qualche decennio, questi nuovi semi hanno soppiantato completamente i semi autoctoni e si sono rivelati un piede di porco per poter sfruttare ancora meglio gli agricoltori. In primo luogo, la presunta maggior resistenza ad insetti e parassiti è calata vertiginosamente e rapidamente, adesso sono necessarie tonnellate di pesticidi per riuscire a portare a casa un raccolto. Pesticidi che spesso vengono prodotti dalle stesse aziende agroalimentari. In secondo luogo, questi semi sono sterili, ciò significa che non è più possibile creare nuove coltivazioni da quelle precedenti, così come si era sempre fatto. È necessario invece ricomprare i semi per ogni raccolto, obbligando i coltivatori non solo a una ovvia spesa aggiuntiva, ma anche rendendoli di fatto dipendenti a vita da quel prodotto.
Gli agricoltori devono spendere molti soldi per i loro terreni e se qualcosa va storto è molto facile ritrovarsi velocemente ricoperti di debiti. Il tasso di suicidi fra gli agricoltori è altissimo, non è un’eccezione trovare famiglie in cui si ha almeno un parente che ha deciso di farla finita buttandosi sotto un treno o avvelenandosi con i pesticidi.

Non credo esista un esempio migliore di come civiltà, capitalismo e scienza possano copulare assieme per generare orrendi mostri. Da una parte la civiltà senza la quale non saremmo succubi di schemi culturali che danno senso e importanza a cose che ne sono prive. Dall’altra il capitalismo, la massimizzazione del profitto e della produttività. E infine la scienza, con la sua capacità di osservazione miope al fine di manipolare senza davvero comprendere. E l’emblema di tutto ciò è proprio l’invenzione dei semi sterili, ovvero prendere qualcosa che naturalmente si rigenera, che significa vita, rinascita, e romperlo, mutilarlo, stuprarlo, per renderlo qualcosa di commerciabile e attraverso il quale soggiogare intere popolazioni mentre si distrugge il pianeta.