Trickle… up – MMJ Podcast 2.7

Molti avranno sentito parlare di “trickle-down economics” nell’ambito dell’economia.
In pratica, la teoria del trickle-down in campo economico sostiene che le agevolazioni fiscali e i benefici per le aziende e i per i ricchi si riversano su tutti gli altri. In questa visione, l’accumulo di grandi capitali da parte di pochi individui, quindi, non è visto come un male, bensì qualcosa di auspicabile perché tutta quella ricchezza poi “sgocciola” sul resto degli individui innescando un circolo virtuoso di crescita. L’assunto è che i maggiori profitti di aziende e persone abbienti si tradurrebbero in nuovi investimenti, espansione delle attività e conseguente creazione di posti di lavoro, generando così un benessere diffuso.

La realtà, purtroppo, è ben diversa.
L’esperienza storica e una vasta mole di ricerche economiche dimostrano che questo “sgocciolamento” non si concretizza se non in rari casi che vengono poi usati per dimostrare la veridicità della teoria nella sua interezza. Anzi, spesso accade esattamente il contrario: i benefici tendono a rimanere confinati nelle fasce più ricche della popolazione, accentuando le disuguaglianze sociali ed economiche preesistenti.
Invece di assistere a una redistribuzione della ricchezza, se ne osserva una concentrazione sempre maggiore nelle mani di sempre meno persone. Il mercato premia lo squalo più vorace e la competizione porta a una riduzione degli attori in gioco creando dei colossi finanziari sempre più grandi che distruggono o fagocitano quelli più piccoli.
Non solo, non esiste nemmeno una correlazione diretta e automatica tra l’aumento dei profitti dei ricchi con la creazione di nuovi posti di lavoro. Le aziende potrebbero reinvestire i guadagni in altre attività, come la speculazione finanziaria o l’automazione, senza che ciò si traduca in un incremento dell’occupazione, della produzione o della qualità dei prodotti, cioè in ciò che si considera un beneficio diffuso per la società.

Secondo un rapporto dell’OCSE del 2024, si stima che tra il 1995 e il 2022 la ricchezza posseduta dallo 0,001% degli individui più ricchi sia raddoppiata. La ricchezza di questa minuscola fetta di popolazione più ricca è circa 20 volte maggiore rispetto alla ricchezza del 50% della popolazione più povera.
Secondo un rapporto Oxfam, nel 2024 la ricchezza dei 10 uomini più ricchi al mondo è cresciuta, in media, di quasi 100 milioni di dollari al giorno. Oxfam ha calcolato che, se il 99% del patrimonio di uno di loro dovesse scomparire da un giorno all’altro, rimarrebbe ancora miliardario.
Oggi, l’1% delle persone più ricche possiede circa metà della ricchezza netta mondiale. Il 10% di loro ne possiede circa l’85%.

La trickle-down economics è una grande operazione di marketing che ha creato l’alibi perfetto affinché il delinquente e assassino accumulo di capitali nelle mani di pochi fosse visto come qualcosa di benefico per la società, mentre i super ricchi continuano ad accaparrarsi risorse e le disparità economiche e sociali sono sempre più importanti.

Ecco, questo stesso schema, con le dovute differenze, si può delineare anche in ambito tecnologico. In questo caso userei la definizione “trickle-down technology”.
Infatti, di solito si pensa che le innovazioni tecnologiche, sviluppate inizialmente da grandi aziende o da ristrette cerchie di esperti, finiscono per diventare accessibili a tutti portando benefici generalizzati. Ma, anche in questo caso, un’analisi obiettiva rivela una realtà più complessa.
La maggior parte delle tecnologie rimane quasi sempre appannaggio di pochi, su scala mondiale. La maggior parte delle persone invece lavora duramente in condizioni di schiavitù o semischiavitù per rendere possibili quelle magie tecnologiche con cui i privilegiati giocano, dipingendole come un progresso dell’umanità intera.

Immaginare “l’uomo su Marte” come simbolo di una civiltà fiorente di cui tutti godiamo, significa in realtà immaginare milioni di persone che scavano nelle miniere per ottenere materie prime; significa vivere in un mondo sempre più inquinato; significa devastazione ambientale e riduzione degli habitat. Non può esistere una tecnologia priva di questo costo collettivo. La maggior parte delle persone, quindi, paga con il lavoro, le risorse, la degradazione ambientale, per far sì che una corporation riesca a mandare, forse, un singolo uomo su Marte… per poi dire “siamo andati su Marte”. Ma noi chi?
Esattamente come per l’economia, i benefici di una tecnologia (spesso solo apparenti) si limitano a una ristretta fascia di popolazione, mentre il resto del pianeta ne paga lo scotto.
Non solo, le grandi aziende tecnologiche, grazie alla loro enorme disponibilità di risorse e alla capacità di raccogliere e analizzare dati su vasta scala, finiscono per creare veri e propri tecno-oligopoli, dominando il mercato, ostacolando la concorrenza e la diffusione di tecnologie alternative o una ancora più auspicabile marcia indietro verso soluzioni meno tecnologiche e tecnocratiche.
Le nuove tecnologie, inoltre, creano sempre nuovi divari tecnologici che amplificano le disuguaglianze sociali. Senza contare che alcune tecnologie, soprattutto quelle digitali, possono essere utilizzate come strumenti di controllo e sorveglianza, limitando le libertà individuali e creando nuove forme di sfruttamento.

Si potrebbe erroneamente pensare che tutto ciò sia un problema derivante dall’economia, non dalla tecnologia in sé, e una tecnologia “libera” da logiche di mercato non presenterebbe gli stessi problemi.
Questa è un’altra illusione perché la tecnologia non è di per sé neutrale e, anche senza i meccanismi economici di mercato, per sua stessa natura, non può esistere senza sfruttamento e distruzione ambientale diffusi a privilegio di pochi. In parole povere, per avere tecnologia, dobbiamo avere qualcuno che sia costretto ad andare in miniera o lavorare in catena di montaggio. Punto. Senza povertà e senza una gran moltitudine di persone ricattabili, senza il menefreghismo diffuso sulla questione ambientale e animale, non potremmo avere alcuna tecnologia. La tecnologia è intrinsecamente elitaria.

Un esempio lampante è la diffusione a macchia d’olio dell’intelligenza artificiale.
È noto che questa tecnologia, come molte altre, consuma enormi quantità di acqua oltre che di energia elettrica e, per allenare i modelli, si fa uso di manodopera a basso costo. Nonostante questo e nonostante i continui (e giusti) appelli a un’industria sempre più equa e sostenibile, l’intelligenza artificiale non solo è ciecamente promossa ovunque, ma viene persino regalata dove nessuno l’ha mai richiesta, spuntando in tutti i software che le persone già usavano senza IA, spingendo milioni di persone a giocare con generatori di immagini buffe o interrogare un LLM per sapere quale sia il suo colore preferito, mentre queste operazioni incidono su alcuni dei problemi ambientali e sociali più importanti di questo secolo. Il livello di deresponsabilizzazione introdotto dalle tecnologie è paragonabile a quello subito dai cittadini sotto la propaganda di stati dittatoriali.

Un discorso analogo può essere fatto anche per la ricerca scientifica. In questo caso userei la definizione “trickle-down science”.
Esattamente come per l’economia e per la tecnologia, l’idea che le scoperte scientifiche portino automaticamente benefici a tutta l’umanità è una semplificazione che non tiene conto delle dinamiche reali.
L’idea del singolo scienziato indipendente o team di scienziati indipendente, che postulano, verificano e scoprono qualcosa di cui poi gode l’intera società è pertinente e realistico quanto immaginare la tecnologia solo come un individuo che costruisce qualcosa nel suo garage o immaginare l’economia come dei ragazzini che aprono un chiosco di limonate.
La ricerca indipendente non esiste praticamente più; la complessità tecnica delle ricerche implica sistemi organizzativi imponenti e costosi che rispondono a meccanismi economici e gerarchici.
Spesso, le priorità della ricerca sono dettate da interessi economici e politici, piuttosto che da reali esigenze della società. Non si può fare ricerca senza fondi: a scegliere su cosa fare ricerca, e soprattutto perché farla, di solito sono colossi industriali per scopi commerciali, non curiosi e illuminati scienziati.
L’accesso ai risultati delle ricerche è, il più delle volte, legato a brevetti, diritti di proprietà intellettuale e costi elevati, cose che impediscono a chi ne avrebbe più bisogno di beneficiare delle nuove scoperte, rendendole appannaggio solo di pochi.
I vantaggi concreti, quindi, tendono a concentrarsi nelle mani dei pochi che finanziano le ricerche e ne traggono vantaggio, in maniera non dissimile dai guadagni di imprenditori che finanziano una startup, mentre i potenziali effetti collaterali e i rischi, spesso sottovalutati, possono ricadere sull’intera collettività.
Anche in questo caso, si cerca di risolvere i problemi strutturali di come concepiamo la scienza e i suoi meccanismi con piccole soluzioni isolate, senza affrontare le cause ancestrali.
Infine, è importante sottolineare come la ricerca scientifica, così come la tecnologia, non sia un’attività neutrale e oggettiva, ma sia sempre influenzata da un contesto sociale, politico ed economico che ne condiziona le direzioni.

Mi rendo conto che sono molte le resistenze che si pongono in essere quando si critica l’economia, ma ancora di più la tecnologia e soprattutto la scienza. Di solito si tende a concentrarsi solo sui lati positivi immediati ignorando i risvolti più oscuri e quelli a lungo termine, esattamente come fa l’economia che incensa il mercato mostrandolo come il mezzo senza il quale lo sfruttato non potrebbe sfamare la famiglia e mettendo sotto il tappeto tutte le “esternalità”.
Tecnologia e scienza vengono difese anche perché, a prescindere, hanno solide radici: la tecnologia funziona e la scienza si basa sul metodo scientifico. Due capisaldi apparentemente inoppugnabili, ma che in realtà non sono diversi dalle teorie economiche con le loro stravaganti formule matematiche o le regole del marketing, ovvero mere impalcature di carattere semantico o matematico autoreferenziali che si auto legittimano.
Su queste entità si è creata una tale mitologia che le immaginiamo parte di noi, caratteristiche della nostra specie, della nostra biologia, della nostra natura come se miniere, laboratori e il Nasdaq fossero scritti, ineluttabilmente, da qualche parte nel nostro DNA.
Questa mitologia si nutre anche della paura dell’assenza di questi elementi, in quanto essi ci salverebbero da condizioni peggiori che ne rappresentano l’antitesi: l’economia ci salva dalla scarsità e dalla povertà, la tecnologia ci salva dalle fatiche e dalle difficoltà, la scienza dall’ignoranza e dalla superstizione. Assunti, ovviamente, semplicistici se non del tutto arbitrari e controfattuali, ma perfettamente funzionali se li si immagina utilizzati come si fa coi bambini quando li si spaventa con la storia dell’uomo nero.
Ma sto divagando e la complessità di questo argomento richiederebbe una trattazione a sé stante.

Tornando a noi, in conclusione, il mito dello “sgocciolamento”, che si tratti di ricchezza, tecnologia o scienza, si rivela un’illusione che maschera dinamiche di potere e disuguaglianze appannaggio di una élite. Anziché di trickle-down, dovremmo parlare di trickle-up, cioè uno sgocciolamento verso l’alto, verso il vertice di una piramide talmente imponente che facciamo fatica persino a concepire nella sua interezza.
È necessario iniziare a vedere che anche le briciole che questi sistemi ci fanno piovere tra le mani sono briciole di pagnotte avvelenate. Questo veleno intossica il mondo opprimendo la stragrande maggioranza degli individui e creando anche per noi, privilegiati ma sempre nella parte inferiore della piramide, un insieme di meccanismi distopici, deresponsabilizzanti e inumani che ci portano verso un futuro oggettificato e oggettificante, in cui faremo sempre più fatica a salvare quello che ci rende umani, schiacciati e trasformati in mattoni in fila che formano il muro di cinta dei palazzi del potere.

 

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