l pericolo del “politically correct” a vantaggio dello status quo.

Recentemente, sull’onda dell’ennesimo omicidio di stato a danno di un uomo di colore negli USA, si sono sollevate proteste, reazioni e contestazioni di diversa forma ed entità concentratesi più marginalmente sulla violenza della polizia ma incentrate soprattutto sul razzismo dilagante.
È triste pensare che si debba assistere a questi eventi affinché vi sia uno scuotimento sociale su questi temi, ma tant’è…
Al di là di questo, purtroppo, oltre a movimenti genuini (più meno efficaci) di sensibilizzazione e protesta, stanno accadendo cose e prendendo piede dibattiti che sono a mio avviso altamente controproducenti.
Una di queste perniciose reazioni è il ricorso smodato e paranoico al politically correct.
Per fare un paio di esempi e rendere l’idea: il ritiro dal commercio di sbiancanti per la pelle o l’eliminazione di parole come bianco, sbiancante, ecc. da questi prodotti e relativi spot; cambiare il nome alle cosiddette “black list” che non dovranno più avere riferimenti negativi al colore nero, fino a colorare di nero la macchina da corsa di una scuderia o porsi il problema se il gioco degli scacchi sia razzista visto che il bianco muove per primo.
Ora, alcuni di questi concetti, costumi, modi di dire ecc. (da ora per comodità li chiamerò semplicemente “elementi”) messi sotto il riflettore da questa ondata di ripensamento razziale, sono veramente di origine razzista o addirittura basati sul razzismo. Ad esempio, le creme per sbiancare la pelle non solo sono state anche pubblicizzate con spot platealmente razzisti, ma parte della richiesta di mercato di quelle creme si basa proprio sul presupposto razzista e culturalmente dominante che bianco è “bello e buono” mentre nero è “brutto e cattivo”. Un paradigma apparentemente talmente stupido da risultare poco credibile ma nella realtà dei fatti talmente diffuso e capillare che persino molte persone di colore lo hanno recepito più o meno consapevolmente (vedi esp. Bambole https://bit.ly/3ea8deU). Altri “elementi” possono avere solo una antica matrice razziale andata poi completamente persa col tempo (vedasi l’uso dei termini “master” e “slave” nell’informatica), altri ancora non hanno alcuna connotazione razziale che invece viene tirata fuori dal cilindro a forza facendo salti mortali logici e storici ridicoli (come appunto la storia degli scacchi).
Ma quindi, se comunque alcuni di questi “elementi” hanno veramente connessioni con il razzismo, perché potrebbe essere controproducente eliminarli, correggerli o dibatterne?

Partiamo mettendo sulla bilancia l’effetto sociale che si avrebbe agendo su gli “elementi” meno (o del tutto) scollegati dal razzismo: spendere energie per valutare, eliminare, censurare, correggere questi “elementi” non intaccherebbe minimamente il razzismo e darebbe solo ulteriore forza alla propaganda razzista. Il razzismo è un po’ come la mafia e il fascismo: uno dei suoi punti di forza è fingere di non esistere, di minimizzare il problema e cercare di far passare il razzista da vittima. Quindi concentrarsi su questi elementi farebbe davvero perdere energie che potrebbero essere impiegate su altri più utili ambiti del razzismo e in più darebbe una grandissima mano ai razzisti che vogliono dimostrare che il razzismo non esiste perché “ci si occupa più delle minoranze che della maggioranza”.
Nel caso invece di “elementi” che hanno davvero una palese matrice razzista o diretta connessione con il razzismo, bisogna valutare il fatto che comunque si sta scambiando la causa con l’effetto e, a catena, questo genera diversi altri problemi.
Infatti, prima di tutto, bisogna comprendere che questi “elementi” non sono di per sé ”razzismo” ma sono “conseguenza di razzismo”. Questa differenziazione può sembrare meramente filosofica ma in realtà ha delle conseguenze pratiche molto importanti. Dobbiamo capire che anche eliminando tutti questi “elementi” con la bacchetta magica non si diminuirebbe il livello di razzismo nella società ma si sopprimerebbero solo delle sue manifestazioni. Beh, comunque è già qualcosa, no? No. Anzi. Lasciare intatto il problema alla radice mettendo sotto il tappeto, a forza, le sue manifestazioni è un errore grave. Invertire la causa con l’effetto è uno dei massimi pericolo da evitare nell’attivismo. Ognuno di questi “elementi”, anche quelli più connessi al razzismo, non sarebbero tali se calati in una società non razzista, allo stesso modo di come una battuta razzista (o sessista, abilista, ageista, ecc.) ha un significato diverso se proferita tra due conoscenti che sono chiaramente e consapevolmente antirazzisti, rispetto alla stessa battuta proferita pubblicamente magari da politico durante un discorso pubblico. Il contesto è fondamentale. Il contesto genera il significato. Ancora di più se parliamo di parole che per definizione cambiano significato in base al momento storico-culturale. Queste sono espressione della società, non è la società espressione di questi “elementi” che, da soli, non dicono nulla della società e del razzismo, non muovono l’ago della bilancia dell’intolleranza. E’ l’esatto opposto. Dipende dal tipo di società in cui ci troviamo, dal tessuto sociale, da come le persone vedono loro stesse, la comunità e “l’altro” che questi “elementi” prendono un significato diverso e vanno analizzati di conseguenza, per agire poi sulle cause, non sugli “elementi” stessi.
Quindi agire su questi “elementi” è un ennesimo enorme favore allo status quo, al razzismo, a tutte le personalità pubbliche (aziende e politici in primis) che vogliono fingere di fare qualcosa a riguardo senza in realtà fare nulla se non ignorare il problema alla radice, dare una grande mano alla propaganda razzista che tende sempre a minimizzare e ridicolizzare il problema del razzismo.

Non mi stupisce che a cadere in questa controproducente palude ideologica siano (più o meno genuinamente) persone comuni e la cosiddetta “società civile” (anche perché se la maggioranza fosse così scaltra e socialmente matura da capire questi meccanismi, io non starei qui a scrivere di razzismo in primis), mi stupisce invece e mi preoccupa fortemente l’atteggiamento e la risposta di molte frange attiviste che, in generale, non solo non hanno contestato queste attività e dibattiti, anzi, spesso li hanno sostenuti ignorando completamente antefatti e conseguenze.
Comunicazione, analisi della radice del problema che si vuole combattere e valutazione delle conseguenze delle proprie azioni dovrebbero essere alla base di una qualsiasi forma di attivismo, se manca questo manca l’attivismo.
Ciò purtroppo si accoda a una serie di fatti che se messi in fila stanno disegnando una clamorosa e palese linea di tracollo in termini di qualità e analisi sociale dell’attivismo in generale. Gran parte dei fronti di lotta attivista si stanno trasformando nella parodia che serve al potere per permettergli facilmente di denigrarli, appiattire il dibattito, insabbiarlo, un po’ come dipingersi un bersaglio sulla schiena di proposito. Le lotte stesse stanno diventando sempre più una eterna e macchiettistica lotta “noi contro di loro”, un sostenere ciecamente iniziative perché “almeno si fa qualcosa”, dare ragione/torto a persone in base alla categoria di cui fanno parte e non sulla base di quello che dicono, mentre vengono buttate nel cesso tutte le analisi, la programmazione comunicativa e politica che occorre per qualsiasi forma di attivismo, mentre si fa un abuso di etichette e di slogan al punto da far perdere loro qualsiasi significato, esattamente come farebbe il potere stesso per esautorare e disinnescare le parole che servono a cambiare paradigma.
Insomma, l’attivismo sta diventando esso stesso un meccanismo dello status quo.